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STORIA E DESTINO DELLE PICCOLE COSE

DAVID BOWES - ENZO FORESE - YURI RODEKIN
ANTONIO SOFIANOPULO - ARON REYR SVERRISSON
YUNONG WANG - XIN ZHOU


4 marzo 2023

Frammenti di interno, correlativo oggettivo della condizione umana

In questo tempo in cui si muore per un’altra guerra ingiusta, più vicina rispetto a quelle cui spesso siamo rimasti indifferenti, in questo tempo in cui sembra impossibile una riconciliazione che ristabilizzi l’ordine mondiale, in questo tempo di individualismo generalizzato, la galleria D&D avverte la necessità di ribadire che l’arte può esercitare il ruolo di far convivere esperienze diverse, senza limiti di barriere, muri, dogane, perché ha una voce universale e si esprime con un linguaggio capace di creare vera comunicazione, al di là dell’idioma con cui si parla.
La mostra nasce prima di tutto da un’amicizia di lunga data con artisti di diversa provenienza, in grado di creare un dialogo mediante il fil rouge della natura morta, natura silente masempre viva finché esisterà un occhio che la osserva.
Sono presenti un bostoniano che abita a Torino, un italiano, un russo che vive in Austria, un triestino di origine greca, un islandese, una coppia di cinesi trapiantati a Düsseldorf.
L’oggetto/soggetto che compone una natura morta ha connotati trasversali, non conosce la sottolineatura dei diversi tratti somatici, le connotazioni di urbanistica e paesaggio che contraddistinguono la storia e la geografia dei diversi Paesi: un bicchiere è ovunque un bicchiere, come una mela, che è solo una mela – non è solo una mela – in qualunque meridiano della terra.
Un clima familiare lega questi artisti di fama internazionale che hanno già lavorato con la galleria: alcuni di loro si conoscono da tempo, sono compagni di strada tra i quali è possibile realizzare il dialogo che la D&D intende valorizzare: dialogo con gli antichi maestri ma anche tra le differenti voci della vita contemporanea, del ‘qui e ora’, in cui gli oggetti alludono al nostro tempo difficile e veloce.

C’è stata un’epoca in cui la poesia doveva trattare solo temi aulici, nobili, con simboli di elevata dignità, ma poi qualcuno – Eugenio Montale – ha avuto il coraggio di porre un osso di seppia come correlativo oggettivo della condizione umana, e l’immaginario degli artisti ha conosciuto uno stravolgimento totale. La strada era stata già aperta cinquant’anni prima da Baudelaire, e il vortice del soggettivismo simbolico è divenuto sempre più libero e convincente, capace di dire le note più segrete dell’uomo che attraverso l’arte chiama gli spettatori nel meccanismo comunicativo che chiede comprensione e condivisione.
Temi ‘poveri’, che erano già stati presenti nelle opere di questo genere ben connotato nel cammino della storia dell’arte, sono qui rivisitati nel piccolo formato che li rende protagonisti.
Le scatole di cartone di Sverrisson, poco ‘poetiche’ nella loro sostanza eppure così enigmatiche e allusive, sono corifeo del messaggio di speranza sotteso alla mostra, perché una scatola vuota può contenere tutto, e può diventare una promessa di cambiamento.

 

L’infinita vanità del tutto1
“Parole di Qoelet, figlio di Davide, re a Gerusalemme. Vanità delle vanità, dice Qoelet, vanità delle vanità: tutto è vanità. Quale guadagno viene all’uomo per tutta la fatica con cui si affanna sotto il sole? Una generazione se ne va e un’altra arriva, ma la terra resta sempre la stessa.”
                                                                                                          Qoelet, Antico Testamento, 1

Così Qoelet, che sostiene di essere nientemeno che il re Salomone, figlio del re Davide, inizia il lungo lamento malinconico sulla tristezza di chi crede di poter cambiare ciò che avviene sotto il sole, ampio catalogo di insuccessi e umiliazioni di chi si illude che siano i beni materiali a poter garantire all’uomo la felicità: tutto è vanità e l’unica consolazione è riposta nel Dio dell’Alleanza, che chiede fede totale e obbedienza alla sua legge.
La parola ‘vanità’ deriva dal latino, la lingua della Vulgata, la traduzione della Bibbia che San Gerolamo realizzò alla fine del IV secolo a.C. Rimanda al concetto di ‘vuoto, inutile, fragile e caduco’. Come afferma l’autore di queste parole gravi che permeano il destino dell’uomo di inquietante precarietà, se l’unica conclusione della vita è inevitabilmente la morte, tutto appare vano, e qualunque sforzo per ottenere in terra la soddisfazione dei propri desideri è destinato a fallire.
 
L’arte figurativa, soprattutto la pittura, è stata fin dalle origini pronta a far proprio questo tema, rappresentando l’essenza effimera dei beni mondani e il trascorrere inesorabile del tempo.
Gli oggetti inanimati come fiori recisi, frutta, strumenti musicali, bottiglie, clessidre, animali morti – carichi tutti di forti valenze allegoriche – diventano presto soggetto della ‘messa in posa’ del trionfo della morte, che gli artisti tentano di sconfiggere attraverso le diverse cifre stilistiche che narrano la bellezza della vita. Tutto può essere parte della rappresentazione, è infinito l’immaginario dell’artista al punto che forse frammento di interno sembra la definizione più adeguata ad indicare questo genere pittorico.  
Una tecnica eccellente sostiene la descrizione minuziosa di ogni elemento scelto come simbolo della caducità; un indugio nostalgico accarezza le forme della vita destinata a de-comporsi: l’artista sensibile alla domanda esistenziale su tutto ciò che è transitorio regala al fiore, alla farfalla, al fragile bicchiere di cristallo, all’umile caffettiera dipinta in mezzo alla frutta un abito di eternità, e mentre tutto attorno muore, si abbandona all’illusione che con la sua opera sia possibile fissare per sempre sulla tela o sul muro affrescato i dettagli capaci di consolare il nostro vivere quotidiano.

1 Leopardi, A se stesso, in Canti

Trionfo o sconfitta della morte?
“Ho visto tutte le opere che si fanno sotto il sole, ed ecco: tutto è vanità e un correre dietro al vento. Ciò che è storto non si può raddrizzare e quel che manca non si può contare.”
                                                                                                          Qoelet, Antico Testamento, 1
La Canestra di frutta di Caravaggio (1597-1599) – la prima natura morta realizzata in Italia – è forse il dipinto più emblematico e più conosciuto: finite le certezze metafisiche del mondo gotico, finita la prospettiva che la centralità terrena dell’uomo sia sufficiente a comprendere il reale, inizia il secolo dell’inquietudine che apre le strade alla scienza come unica possibilità di lettura del destino dell’uomo. Tutto è materia, e la materia umana è tristemente fragile e precaria, ma lo studio della materia stessa in qualche modo conforta, poiché offre la possibilità di compensare l’orrore del vuoto – della vanitas, appunto – attraverso la conoscenza dei meccanismi della vita. La scienza procede inesorabilmente nel suo percorso sempre più radicale, che travolge anche la ricerca filosofica, ma l’arte si mantiene fedele ai soggetti richiesti dai committenti – ritrattistica, temi religiosi – concedendosi nello spazio privato la libertà espressiva di aprirsi al mondo della rappresentazione dei soggetti inanimati. 

Il genere - nato qualche decennio prima nei Paesi Bassi con il nome di Still-Leven, cioè Natura in quiete – si diffonde tra gli artisti europei con una velocità straordinaria, indice dell’urgenza di indugiare nella tematica metafisica, proprio mentre la scienza tenta di dare risposte basate sulla fisica, la biologia, gli elementi chimici, l’anatomia. La caducità, compagna di una inevitabile malinconia, incanta e crea un turbamento che solo la bellezza delle rappresentazioni, la magia della luce, l’attenzione per il dettaglio possono riscattare.

“Ho preso in odio ogni lavoro che con fatica ho compiuto sotto il sole, perché dovrò lasciarlo al mio successore. E chi sa se questi sarà saggio o stolto? Eppure potrà disporre di tutto il mio lavoro, in cui ho speso fatiche e intelligenza sotto il sole. Anche questo è vanità! Sono giunto al punto di disperare in cuor mio per tutta la fatica che avevo sostenuto sotto il sole, perché chi ha lavorato con sapienza, con scienza e con successo dovrà poi lasciare la sua parte a un altro che non vi ha per nulla faticato. Anche questo è vanità e un grande male.”
                                                                                                          Qoelet, Antico Testamento, 2

Quanto è più bello il termine olandese rispetto all’etichetta Natura Morta introdotta in Italia alla fine dell’800! Hanno tentato di sostituirla con Natura o Vita silenziosa, ma alla fine l’alone della morte ha vinto, poiché ignorarono il messaggio che, pur attraverso soggetti inanimati, era sempre di vita che si stava ragionando. De Chirico nel 1942 propone Vite silenti, ma non ha seguito. I Paesi del Nord si uniformano all’olandese (in inglese l’espressione Still-life letteralmente significa Vita immobile; in tedesco Still-leben sottolinea il carattere di Natura silenziosa, segreta, nascosta, da contrapporre al dinamismo dei modelli viventi), mentre le terre mediterranee aderiscono alla scelta italiana, a conferma dei legami culturali variamente intrecciati.

Eppure, è proprio il termine inglese che consente, attraverso una ‘contraddizione’ linguistica, di penetrare nel segreto di questo genere pittorico così praticato eppure così misterioso: still come aggettivo significa fermo, immobile, ma come avverbio significa ancora. Quindi Still-life letteralmente significa Vita ferma, cioè mancanza di vita, visto che la vita non può essere ferma, ma se si privilegia la valenza di avverbio, l’espressione significa Ancora in vita. Questo è il fascino di tante Nature morte della tradizione pittorica: tutto sarebbe finito, ma in realtà attraverso il dipinto tutto è ancora qui, come se l’arte avesse il potere di rendere incorruttibile e indistruttibile ogni oggetto/soggetto che, a differenza di un volto o di un’onda del mare, non diventa fermo con la pittura, ma nasce fermo, in qualche modo eternamente fermo: dipingendo una Natura morta/Natura ancora in vita, l’artista dona agli oggetti un’esistenza che non potrà mai finire, e sconfigge la morte.

 

Storia e destino delle piccole cose
Tutto muore, i fiori gli insetti gli uomini, piccole creature nell’immensità del creato, muoiono anche le montagne, che pur sembrano incrollabili e certe, e muoiono le stelle. È solo una questione di tempo, ma nulla resiste al tempo.
Trascorrono davanti agli occhi i petali della rosa del Giovane malato di Lorenzo Lotto, le fette spalmate di burro nella tela Il cesto di pane di Dalì e tutte le armature, le sculture, gli strumenti musicali, le conchiglie, i fiori e le farfalle ‘necessari’ a rappresentare la sorte caduca di ogni esperienza umana.
Che si tratti di un dettaglio negli affreschi parietali delle case signorili dell’antica Pompei o delle bottiglie di Morandi, sempre uguali e sempre diverse, della frutta di Cézanne, tutto in questo genere pittorico rimanda al tema della vanitas perché niente è più vivo di ciò che è destinato a morire.  Solo la morte dà senso alla vita, ne definisce i confini, dà valore ai diversi momenti del quotidiano. E così, considerando ‘altro’ da noi il ritratto di un cardinale o un paesaggio che non vedremo mai, questi oggetti che ci vivono accanto, compagni del nostro resistere domestico quando intorno e dentro tutto muore, rappresentano l’essenza stessa della nostra esistenza, poiché assistono – spettatori immobili e muti – alla nostra storia, al nostro destino.
Eppure, ciò che è fermo non è morto ma vive una piccola vita raccolta, in tonalità minore rispetto all’ esistenza drammatica o ricca di pathos dell’uomo o della terra: i ritratti e i paesaggi respirano della vita delle creature, mentre le Nature morte trattengono la voce di chi si è dedicato alla loro realizzazione. L’uomo e la natura sono creature di un dio; le caraffe, le tazze, i libri, le statuette, le tappezzerie le tovaglie sono creazioni dell’uomo, che in queste produzioni artigianali, dalle più povere alle più raffinate, umilmente si ‘indivina’.
Sono presenze rassicuranti della giornata nonostante l’inesorabile fluire del tempo che ci divora mentre le cose resteranno, testimoni del nostro agire e del nostro trapasso: sono oggetti per un momento speciale, come una tazzina del servizio ‘buono’, preziosi come una statuina di cento anni fa o umili come una patata, che non ci sopravvivrà se non nella rappresentazione pittorica.
E così ci teniamo care le cose che segnano il fluire della nostra vita, le teniamo vicine, strette per ricordarci che stiamo vivendo. Grazie a una teiera, un libro, un fiore oppure un uovo definiamo il nostro dire ‘sono qui’ prima che il nulla eterno2 annulli ogni palpito, prima che le nostre cose raccolte con amore siano divise tra i parenti, prima che i nostri ricordi siano esposti a un mercatino dell’usato in attesa di una mano che scelga proprio quell’oggetto in mezzo ad altri, percependo in modo indistinto eppure dolcissimo tutti gli echi che porta con sé.
Perché ogni cosa ha una storia, che sarebbe la storia voluta dal suo proprietario che sceglie dove collocare un soprammobile, che tazze utilizzare, che libro acquistare dallo scaffale della libreria, in mezzo a centinaia di altri titoli. Ma poi il destino interviene e la storia conosce una deviazione inattesa per un trasferimento, un trasloco, la morte e così gli oggetti, le piccole cose che sono state così importanti per chi le ha volute, per chi le ha ricevute in dono, per chi le ha usate cambiano proprietario e vivono una nuova vita, inattesa e imprevedibile, magari a volte perfino migliore.
Quante case vengono svuotate, nel tempo della fine di chi lì ha abitato per tanti anni o per tutta la vita, quante stanze di chi magari da tanto tempo era sepolto in una casa di riposo. Un parente o più parenti arrivano, smembrano, dividono, vendono, buttano via senza neppure sapere che cosa rappresentassero quelle cose per chi le aveva usate, per chi le aveva amate. La loro storia finisce e inizia il nuovo destino, innocente e vergine, perché le cose hanno il dono di purificarsi dalle scorie della vita precedente, quando arrivano nelle nuove mani di chi offre un’altra occasione: eppure conservano qualche vibrazione della loro antica vita, perché ogni nuovo destino conserva la memoria di ciò che è accaduto prima. È per questo che le cose antiche, o semplicemente passate di mano in mano hanno una vitalità intensa e ricca, è per questo che le desideriamo come testimoni del nostro vivere: sentiamo che hanno ancora da dire qualche cosa, che il loro ciclo non è compiuto.
Siamo noi uomini le principali vittime delle leggi della materia, che passa dalla nascita alla crescita al declino e infine alla morte. Le cose sono sempre uguali al loro primo giorno, semmai un po’ fané, un po’ vissute. Possono rompersi, certo, ma non muoiono, ed è così rassicurante questo pensiero, quando invece siamo destinati a perdere tutti quelli che amiamo, che ci vivono accanto, quando noi stessi moriremo. Le cose restano, silenti e immobili. Immutabili e stabili.
Esiste una storia e a un certo punto si innesta il destino. Vedo un oggetto a un mercato dell’usato: lo compro o non lo compro, mi serve o non mi serve. Lo prendo lo stesso anche se non mi serve, perché mi piace. Chissà di chi era, quale vita ha visto dal suo punto di vista di piccola cosa che sa di avere un’esistenza mutevole.  La vita delle cose è così strana e precaria, fragile e incerta.

Ma è forse diversa la vita degli uomini?

2 Ugo Foscolo, Alla sera, in Sonetti

 

La lezione di un foglio di carta
Nella vita di un allievo di pittura la copia dal vero di oggetti, presi singolarmente oppure legati in una composizione, occupa una posizione di rilievo, prioritaria per quanto riguarda gli step della sua formazione. Sono i primi esercizi, perché è più facile riprodurre un oggetto immobile che un viso o un libro cui il vento gira le pagine, l’autunno tra le foglie, l’acqua che scorre, eppure il compito può diventare molto impegnativo: proprio perché l’oggetto rimane a lungo immobile davanti agli occhi, la mano che disegna vede tutto, nota i particolari, e deve correre perché la luce non cambi le ombre e le forme.
Le prime prove saranno ‘accademiche’ poi, a mano a mano che lo studente si emancipa e trova la sua strada, può arrivare a creare degli accostamenti insoliti, inserendo ‘piccole cose’ dal valore simbolico a seconda del messaggio che intende trasmettere.
Il disegno è il primo, fondamentale passo verso i segreti della pittura, ed è importante che l’allievo incontri dei bravi maestri, che sappiano mostrare la magia di questi frammenti di interno, ricchi di anima e di significati. Dallo studio delle forme all’osservazione della luce, dalla diversa mano necessaria a riprodurre materiali dai caratteri  differenti – disegnare e in seguito dipingere il velluto o il legno non è come rappresentare il vetro, il marmo o il metallo – , dall’analisi delle proporzioni alle tecniche della composizione, tutto costituisce la base su cui si formerà la coscienza tecnica dell’artista, consapevole di aver imparato nelle ore di ‘copia dal vero’ della sua giovinezza ad osservare il reale, ad osare nel mondo dell’immaginario. 
Konrad Klapheck raccontava un aneddoto interessante. Frequentava presso l’Accademia di Düsseldorf le lezioni di disegno del professor Bruno Goller che un giorno, dovendo improvvisare una lezione inattesa, non aveva potuto preparare la solita composizione complessa con cui sfidava gli studenti. Allora mise la mano nella tasca della giacca, tirò fuori un foglio, lo accartocciò e lo buttò sulla cattedra, invitando i ragazzi a riprodurlo: l’opacità della carta è una sfida immensa per uno che si cimenti a riprodurla con il disegno o la pittura.
Klapheck diceva che fu un’intuizione geniale: un foglio accartocciato non è mai uguale a un altro, e questa fu per lui una lezione preziosa, al punto che tante volte nel corso della sua lunga vita di artista si divertì a copiare fogli accartocciati al momento, scovando i punti di luce e di ombra, le linee principali, le piccole pieghe, l’arbitrio con cui la carta si sistema sulla superficie, spesso in un miracolo di equilibrio, tema che gli consentì di ragionare, più tardi, sulla postura delle figure, sul rilievo da dare alle Macchine.

Quando ho visto la Natura morta di Rodekin in cui un piccolo foglio accartocciato completa la linea prospettica della tazza cinese e del finocchio, ho pensato che dopo due generazioni l’artista aveva imparato la lezione di Goller, senza averla ascoltata.

 

Storia e destino di un cubo di gesso
Nello studio dell’architetto di Venezia U. C., che a lungo diede lezioni di disegno ai giovani artisti – la moglie, che era stata sua allieva, cresciuta alla scuola dei Ciardi dipinse stupendi paesaggi – quando morì trovarono una collezione incredibile di materiale destinato alle Nature morte, catalogato e ordinato per tipologia.
Insegnava che la difficoltà maggiore non consiste nel copiare un oggetto, ma nel scegliere la luce nella quale collocarlo, e nel combinarlo insieme ad altri oggetti in modo che alla fine risulti una somma naturale di cose sottratte alla vita, come se fosse stato fermato un momento del quotidiano.
Guidava gli studenti a divertirsi mentre creavano la composizione, in cui doveva esserci sempre un elemento che facesse sorgere nello spettatore una domanda, e poi diceva che l’abilità maggiore consisteva nel rappresentare il silenzio, il vero protagonista di una Natura morta.
Con la sua composta mitezza, chiedeva: “Se non sapete oggi trattenere ciò che è fermo, come potrete domani dipingere ciò che si muove, un viso, un pioppo che trema, la corrente di un fiume?”
Alla sua morte improvvisa e prematura, trovarono un mobile a cassetti per gli oggetti di gesso – mani, piedi, solidi geometrici - e fiori di seta. Un comò per tovaglie di ogni tipo, a quadretti da trattoria, di lino ricamato. Un cassetto per i vetri di Murano, incartati uno ad uno: frutta, animali, oggetti kitsch, che trattenevano ancora la luce nonostante la polvere del tempo. Scaffali di bottiglie, caraffe e bicchieri. Vasi di tutte le misure, le forme e i colori. Un cesto di paglia con una pipa, un teschio, una clessidra. Una piccola teca di insetti.
Dovettero liberare il grande studio e tutto fu accatastato in una rimessa della casa di campagna, dove rimase per vent’anni in mezzo alla paglia e alle galline. Quando morì anche la moglie, un uomo andò a salutare i cugini e li trovò che stavano sgomberando tutto: i gessi giacevano rotti in una grande carriola, da cui chiese di poter prendere due pezzi che erano riusciti a sopravvivere, perché il loro destino era più forte della loro storia improvvisamente interrotta. E così portò a casa una mano e un cubo, che tirava fuori la domenica mattina per cercare di insegnare ai figli le tecniche del disegno.  

Mentre scrivo, guardo il cubo con le facce da venti centimetri che respira sul mio scrittoio. Ha gli angoli arrotondati. Nato a Venezia, ha avuto il suo momento di splendore nei primi trent’anni del secolo scorso. Era abituato alle voci degli studenti, educati a dialogare sull’arte durante le lezioni, poi la morte del professore ha cambiato il suo destino e cento anni dopo è arrivato fino a me, fino al silenzio del mio studio di Varese.

Ancora non so a chi andrà questo cubo di gesso che il tempo ha tinto di grigio quando io non ci sarò più, ma farò in modo che chi lo vorrà conservare conosca la sua storia, perché rende più ricco il suo destino.

 

Diverse voci nelle Nature silenti

Una raffinata nostalgia permea le composizioni di David Bowes, immerse nei solari colori ‘italiani’: un fiore giallo collocato ad arte in mezzo ai petali blu genera un intrigante triangolo di luce mediterranea. Gli elementi delle Nature silenti dialogano rivolti verso il centro come in un mondo chiuso, circoscritto, dove risuonano echi dell’infanzia e prevalgono la delicatezza, lo stupore e la vittoria della vita. Manufatti preziosi sono accostati a semplici presenze della vita quotidiana, come un accendino che si rivela prezioso per l’equilibrio della ‘messa in scena’.
Gli oggetti generano ombre appena accennate, come se la loro materia fosse incapace di originare la proiezione oscura, il velo di buio che rappresenta il doppio di ogni forma: tutto rimane avvolto nella luce morbida che solo i bei pensieri possiedono. La sagoma della morte è lasciata in disparte, come una comparsa di poco valore.
La peonia respira e trema di giovinezza quanto il petto della ragazza incapace di restare immobile nella prigione della porcellana: nella sua posa spavalda, canta la potenza del giorno, come il vaso che brilla di riflessi capaci di annunciare il trionfo di ciò che splende e non muore.
 
Le Nature silenti di Enzo Forese, maestro dell’essenzialità che a tratti sconfina con la stilizzazione, sono contraddistinte da una vitalità sussurrata e gentile. Gli elementi delle composizioni appaiono aggrappati uno all’altro, come per ricevere forza reciproca, o separati come pedoni sulla scacchiera della tovaglia, con il Re e la Regina, la torre e gli alfieri arroccati sullo sfondo.
Tutto tace in questi accostamenti di forme dalle tinte vivaci solo in apparenza, perché è come se ogni colore fosse composto con una punta di grigio, come se la tela fosse velata da una sorta di malinconia, e questa fusione nasconde la domanda esistenziale dell’artista che osa esporsi fino a realizzare un vaso grigio su fondo grigio, maestoso nella sua semplicità, con il giocattolo ai piedi del mandarino di luce. 
Gli elementi della rappresentazione – vasi, fiori, frutta – sono ritagliati con forme nette, uniformemente campite, come se ogni figura – riconducibile ai solidi geometrici – si ponesse con un valore assoluto, lontano dal realismo. Rare e timide sono le ombre perché la luce, espressa con voce sommessa, è diffusa indistintamente sulla tela.

Le opere di Yuri Rodekin sono sempre avvolte da un senso di mistero, anche quando apparentemente narrano frammenti di un interno rassicurante. Vengono esposti con pudore e una certa timidezza elementi tratti dall’ampio repertorio di una raffinata collezione privata, che sembra unificare in una matura reductio ad unum tutti i momenti della vita ricca di viaggi, esperienze, contatti e cambiamenti. È ricco e cangiante il catalogo da cui l’artista può trarre gli oggetti con cui costruire i suoi frammenti di interno che in realtà mantengono un contatto con il mondo esterno, come se ci fosse sempre una finestra aperta che consenta la comunicazione tra il mondo interiore e ciò che avviene fuori, tra il segreto della voce intima e la vita che scorre, al di là della finestra. Qualche cosa di semplice e qualche cosa di enigmatico, qualche cosa di umile e qualche cosa di raffinato, qualche cosa di nuovo come una mela e qualche cosa di antico come un vecchio libro, qualche cosa del quotidiano, come una tovaglia per tutti i giorni, e qualche cosa di raro, come una statuetta impenetrabile.
Sono potenti e originali i colori in questi piccoli teatri domestici, dove prevalgono il viola e il verde acido: secondo l’energia dei chakra, parlano di uno spirito capace di toccare il vertice della meditazione e di un cuore che sa amare emotivamente, senza riserve.

Le ombre sono lunghe e intensamente addensate a ridosso della materia testimone del fluire della vita, che sia la statuetta di un cinese che guarda lontano, fuori dalla tela, o un limone pronto per essere aperto in due: non è mai un’ombra nera, è blu o viola, per addolcire il doppelganger che accompagna ogni esperienza terrena. Nelle Nature silenti di Rodekin davvero tutto è silenzio, come alludono le maschere che guardano attonite verso il piccolo cielo di un salotto.

La sottile ironia e la libera giocosità, tratti connotativi di molte opere di Antonio Sofianopulo, sembrano qui superate per cedere il passo ad una esplicita denuncia contro l’uomo, intervenuto a sconvolgere il disegno primigenio della creazione. Specchio di un disorientamento diffuso e totale, la natura è rappresentata come se fosse stata ‘rovesciata’, come se una mano avesse violato le leggi che governavano la terra. Tutto è sovvertito: il vaso non contiene fiori recisi per preservarne la vita, ma ha perso l’acqua perché qualcuno ha scelto che fosse così e i fiori moriranno prima del tempo.
Gli oggetti che compongono le Nature silenti hanno assimilato la lezione degli Olandesi del ‘600, ma lo spirito contemporaneo serpeggia con potenza dirompente, come dimostra anche la scelta di non rappresentare l’ombra. La corporeità della materia implica la necessità dell’ombra, come ben sottolinea Dante per i suoi personaggi che non disegnano nulla sul terreno perché sono morti, come è morto tutto nelle tele di Sofianopulo, che tenta di sollecitare la responsabilità del singolo a una presa di coscienza che arresti la fine della terra. 
L’opera Il gomitolo sintetizza il pensiero dell’artista, che sembra ancora ravvisare una sorta di speranza per il mondo: il vaso è secco, l’uccello è in trappola e le forbici delle Parche hanno tagliato il filo del gomitolo, che vaga senza collocazione. La luce del vaso illumina un debole volo di farfalle scure, nella morte anticipata del pianeta hanno perso il colore, come il ramo di foglie ha perso vitalità e le pere sono segnate in un anticipo di decomposizione. Nell’apparente condanna senza appello dell’artista, il titolo dice che le Parche potranno anche recidere il filo di una vita, ma esiste ancora un gomitolo che dona giorni e la possibilità di liberare l’uccellino, mettere acqua nel vaso, aprire le finestre perché le farfalle riescano a volare via, anche se solo per la loro breve esistenza di un giorno. 
 
Aron Reyr Sverrisson compone i frammenti di interno con abilità di scenografo, allestendo degli spazi essenziali costruiti sugli assi cartesiani della fisica e della metafisica, dove tutto è reale ma nello stesso tempo è altro. Come accade nella messa in scena teatrale, in cui una stanza ricostruita sul palco può contenere un intero Paese, così nelle opere recenti dell’artista gli elementi concreti, determinati e definiti, che costituiscono l’impianto essenziale della rappresentazione, attraverso la pittura diventano materia fantastica, ideale, concettuale. Niente è più vero di ciò che possiamo immaginare. Tutto è sotto gli occhi, ma è più forte l’eco di mistero che circonda le piccole tele i cui tratti distintivi sono la purezza e l’essenzialità.
Per una visione di sogno o per la proiezione della mente, ciò che qui rileva è il collegamento ideale tra lo spazio interno e lo spazio intorno, oltre i confini della tela: è spazio vuoto, che diviene natura morta nel senso più vicino alla vanitas delle origini del genere, nel suo significato di vacuità, di assenza e quindi di morte. È spazio disabitato, ma non comunica idea di abbandono; è luogo di solitudine e silenzio, di pace solitaria in cui chi attraversa quelle stanze sente di avere con sé l’essenziale.

Al primo sguardo pensiamo che siano dei monocromi, poi all’improvviso vediamo: sembrava impossibile credere che nel grigio potessero esistere tanti colori. La luce stabilisce le regole e costruisce la forza, la solidità delle pareti che sembrano poggiare sul nulla; definisce i rari oggetti che compongono la messa in scena; indugia sulla schiena di porcellana della ragazza nuda, simbolo di perfezione, mentre la proiezione sul muro produce un’ombra deformata, una trasfigurazione che anticipa la fine della bellezza, la decadenza, la vecchiaia. È un’ombra dalle linee inquietanti, che sembra uscire da un’opera del 1600.

È un ossimoro nell’antichissima arte cinese della pittura sostenere che la natura possa essere morta: per questa cultura raffinata e millenaria la natura è solo viva, quasi sempre carica di significati simbolici in riferimento al ciclo delle stagioni della vita e agli stati d’animo dell’uomo. Un artista cinese come Yunong Wang che vive a Düsseldorf da più di vent’anni può scegliere di dipingere la natura nel solco dei maestri europei, ma ai suoi occhi un vaso di fiori recisi o della frutta appoggiata sul tavolo non saranno mai trionfo della morte, ma sempre momenti della vita che accompagna l’uomo nel suo cammino di anima e corpo. L’arte, evidenziando l’essenza di un oggetto, non si limita a riprodurre ma interpreta ciò che esiste, ne evidenzia la bellezza che deriva dalle leggi del mondo, in cui l’uomo non è protagonista come nella visione occidentale, ma importante quanto un uccello o un ramo di susino. Con raffinata essenzialità, Wang adotta tre figli ‘poveri’ come le patate o le cipolle e li ammanta di regalità, rappresentandoli a grandezza naturale con le piccole imperfezioni, la corruzione della materia, il momento della pienezza che prelude al tempo in cui inizieranno a deteriorarsi. Ma non è questo che preoccupa l’artista, che non ragiona come gli occidentali. Una patata o un mazzo di rapanelli possiedono una intensa sacralità perché sono un elemento della natura, e anche la loro inevitabile morte appartiene alla bellezza e alla giustizia del ciclo della vita.
L’acuta osservazione genera la perfezione. Una tecnica impeccabile sostiene il lavoro di Wang che, nel momento in cui copia dal vero, in realtà ricrea. Infatti la sua formazione è avvenuta nel solco della tradizione, e lui ha appreso la duplice arte della pittura e della calligrafia. Solo così, secondo le scuole tradizionali, un artista è completo: la calligrafia educa alla padronanza dell’uso del pennello, strumento che traduce la visione dell’artista in un lento, minuzioso eppure potente trasferimento dell’atto creativo. Il braccio vede e contiene già in sé l’opera finale, la mano che guida il pennello pazientemente la realizza.

Formata nella cultura tradizionale cinese, basata sul dettaglio realizzato con un lavoro meticoloso e lento, Xin Zhou, affascinata dalla cultura occidentale che l’ha spinta a venire a perfezionarsi all’Accademia di Düsseldorf, forse rapita o impressionata dal mondo contemporaneo che scivola via veloce travolgendo le giornate e i pensieri, sceglie una pittura che sembra aver rinnegato i modelli su cui ha costruito la sua visione artistica e predilige l’istante in cui la realtà si concretizza.  L’artista racconta la fugacità, il vortice dell’esistenza in cui tutto – il passaggio della gente in un aeroporto, i piedi di una coppia nel tango, una tazzina di caffè – scivola via rapido, come in una gioiosa danza della morte che altro non è che l’altra faccia della danza della vita. I due elementi dello Yin e lo Yang non sono la dicotomia tra bene e male, come sarebbe nel dualismo occidentale, ma come la notte e il giorno sono due ‘polarità’ di energia che si intreccia continuamente, facendo sì che nell’uno si compenetri l’altro, per creare un’armonia di opposti che genera l’equilibrio del mondo.
Con una straordinaria visione creativa Zhou riesce a rendere questo dualismo, ponendo l’oggetto della rappresentazione in una posizione di stabilità, nello stesso momento in cui sembra volare via, attratto da qualche legge della materia che spinge le cose in un moto centrifugo. Nulla è definitivo, tutto è precario, destinato a trasformarsi, perfino a scomparire. L’artista colloca sulla tela gli oggetti a misura naturale in modo, però, che una parte sia leggermente ‘tagliata fuori’ dal quadro, come se attraverso quella via di fuga fosse pronta a scomparire agli occhi dell’osservatore. Se tutto è veloce, se il vortice dell’esistenza trascina via tutto con sé, è coerente che oggetti e frutta condividano lo stesso destino di precarietà.

Cogli l’attimo! perché nulla resta del nostro vivere affannato e fuggevole: la mela è già tagliata, pronta sul tavolo e in un attimo la polpa diventerà marrone, come ben sapevano e hanno espresso con angosciante amarezza i pittori occidentali, dagli olandesi del 1600 in poi. Ma nella pittura di Zhou prevale il valore di ciò che è qui, qui e ora, a disposizione dell’uomo che anche solo per pochi minuti è padrone della materia e del tempo.

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